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Recensione: "TIRO AL PICCIONE" di Giose Rimanelli

Scomodo oggi come lo era settant’anni fa, Tiro al piccione appartiene alla letteratura dei vinti, un importante filone memorialistico che un senso di vergogna spinge a sommergere. Rimanelli, che trasse ispirazione dalla propria esperienza scrivendo il romanzo all’indomani della guerra, indossò la camicia nera e combatté per la Repubblica di Salò.
Come il suo protagonista, era meno che ventenne.

«[…] Tu provi disgusto della guerra, delle azioni che commettete contro la gente, 
ma non riesci a capire come stanno le cose. Non riesci a vedere chiaro. […]»




Titolo: Tiro al piccione
Autore: Giose Rimanelli
Prima edizione: Mondadori - 1953
Pagine: 273
Prezzo: ebook - € 6,99


Trama
La prima stesura di Tiro al piccione è degli ultimi mesi del 1945. Giose Rimanelli, molisano di vent'anni, reduce dalla guerra civile in cui aveva militato per la Repubblica Sociale, e da cui era poi fuggito, era ancora troppo vicino ai fatti e ai misfatti che lo avevano tanto colpito. Continuò a rielaborare il testo che interessò i redattori della sede romana dell'Einaudi, Carlo Muscetta, Natalino Sapegno e Carlo Levi. In occasione di un viaggio a Roma all'inizio del 1950 (quello che sarebbe stato l'ultimo suo anno di vita), Cesare Pavese sentì parlare di quella storia di un giovane che aveva visto la Resistenza dalla parte sbagliata e successivamente lesse e apprezzò, pur tra riserve, il romanzo. Nel maggio del 1950 Pavese informò Rimanelli che Tiro al piccione sarebbe stato pubblicato. Quando Pavese si ammazzò, il romanzo era già in tipografia, se ne ebbero le prime bozze, ma non se ne fece più nulla. Su consiglio di Elio Vittorini, Tiro al piccione uscì nella «Medusa degli Italiani» di Mondadori invece che nei «Coralli» di Einaudi.
Il tema era per quei tempi arduo. Ma fu scelto per il film d'esordio di Giuliano Montaldo che a ventinove anni, nel 1961, portò sullo schermo le vicende di Marco Laudato, il protagonista problematico in cui Rimanelli si era almeno in parte ritratto e identificato.

***


Dopo lo sbarco degli americani in Sicilia, i tedeschi stanno abbandonando le posizioni nel Sud Italia. Marco, diciassettenne molisano, è ossessionato dalle camionette tedesche che passano sulla strada lasciando il paese. E così, una notte, senza averlo premeditato, si mette sulle loro tracce lasciandosi alle spalle la costrizione delle mura famigliari.
Marco si ritrova dapprima volontario nell'esercito tedesco, da cui riesce a fuggire senza trovare una vera libertà: diventa un soldato repubblichino. Ancora ragazzo e senza una preparazione, impara a tenere in mano un'arma per sparare prima di essere colpito.
Marco non sceglie di andare al fronte, quel fronte anomalo che si muove sui monti e tra le valli italiane; ci capita, quasi fossero gli eventi o altri a portarlo e lui stesso fosse una comparsa nella scena della vita.
Privo di ambizioni, incapace di immaginare un futuro, Marco vorrebbe lasciare l’esercito per vivere tranquillo, ma non ha scelta e vive in perdita, convinto come molti di essere arrivato al suo ultimo giorno.

«Vorrei rivestirmi per sempre coi panni civili,» dissi. 
«Con la divisa è come se fossi eternamente sporco».


Non c’è alcuna convinzione ideologica in Marco Laudato, che non va alla guerra spinto dal desiderio di riscattare la propria Patria o se stesso. Non è un eroe, non ha alcun ideale a cui aggrapparsi, se non la propria giovinezza.
La sua età diventa, nel romanzo, uno schermo che da un lato ha l’effetto di una giustificazione e dall’altro rende centrali le emozioni. Marco è un ragazzo, vive amori assoluti e stringe amicizie fraterne, che coinvolgono anche il lettore.
Per questo motivo ho più volte pensato che Rimanelli abbia calcato la mano sulla dimensione romanzesca, spostando l’attenzione dal discorso politico che, forse, poteva mettere in dubbio la genuinità del racconto e della professione antifascista.
Ho avuto l’impressione, inoltre, che sia stato necessario dare un tono retorico ai confronti ideologici con l’amico Elia e con il saggio Simone. L’esperienza autobiografica, forse, viene meno in questi passaggi ma è plausibile che abbiano avuto un ruolo importante nella rielaborazione degli eventi da parte dell’autore.
D’altra parte, se le prese di distanza dal fascismo apparivano e appaiono necessarie, Tiro al piccione non è soltanto la storia di un giovane soldato che visse la guerra «dalla parte sbagliata». È il punto di vista di una generazione priva di riferimenti e incosciente, che attraversa la guerra e vive il dopoguerra nella vergogna di aver vissuto senza aver scelto e potuto scegliere.
Il racconto della guerra è crudo e agghiacciante: attraverso le riflessioni e i violenti accessi di Marco, traspare l’impossibilità di dare un senso a quanto il protagonista vive. La sua unica consapevolezza sembra essere l’imminenza della morte e l’odio che impregna gli animi.
Il punto di vista di Rimanelli-Laudato, nella convenzionalità delle letture resistenziali, è senza dubbio anomalo e interessante, ma lo stile aspro e generalmente secco ha reso impegnativa la lettura. In particolare, ho faticato moltissimo a entrare in sintonia con il protagonista nella prima parte del romanzo, quando la scrittura sembra smarrirsi in ricordi che il lettore non può afferrare. La narrazione, comunque, entra nel vivo nella seconda parte, riuscendo a raggiungere toni drammaticamente poetici.
Spesso la lotta resistenziale assume un valore di consolatorio riscatto, ma romanzi come Tiro al piccione dovrebbero essere portati più spesso all’attenzione, non tanto per il valore letterario quanto per la possibilità di ampliare il quadro della testimonianza storica.


«Scusatemi tanto, non l’ho fatto apposta».
Ma quelli insisteranno; vorranno che io racconti e rida nelle barbarie,
perché ho visto il mondo e ho fatto la guerra. E io dovrò dire con molta vergogna:
«Scusatemi tanto, non so più ridere né raccontare».





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