Quella prima notte d’occupazione passò bianca per
civili e partigiani.
Non si può chiudere
occhio in una città conquistata ad un nemico che non è stato battuto.
Autore: Beppe Fenoglio
Editore: Einaudi
Pagine: 176
Prezzo: cartaceo - € 11,00; ebook - € 6,99
Trama
"'I ventitre giorni della città di Alba', rievocanti episodi partigiani o l'inquietudine dei giovani nel dopoguerra, sono racconti pieni di fatti, con una evidenza cinematografica, con una penetrazione psicologica tutta oggettiva e rivelano un temperamento di narratore crudo ma senza ostentazione, senza compiacenze di stile, asciutto ed esatto." (Italo Calvino)
***
Credo, forse
sbagliandomi, che la natura della raccolta possa essere chiarita dal titolo con
il quale Fenoglio la presentò a Einaudi. I
ventitré giorni della città di Alba è, infatti, il titolo che Giulio
Einaudi scelse quando il libro era già pronto per la stampa, mutuandolo dal
racconto di apertura.
Fenoglio avrebbe
voluto intitolare la raccolta Racconti
della guerra civile. Era un titolo scomodo in un’epoca che non riusciva a
trovare un equilibrio politico e ancora faticava a interpretare la lotta
resistenziale. Tuttavia, a mio parere, ha la capacità di restituire
compiutamente il respiro della raccolta e il punto di vista, spiazzante, di un
uomo che ha preso attivamente parte alla Resistenza.
La posizione di
Fenoglio rispetto alla narrativa resistenziale, e soprattutto rispetto alla memoria
storica, permea i racconti dei Ventitré
giorni, che si soffermano sull’avventura partigiana nel suo svolgersi e sul
malessere psicologico ed esistenziale del dopoguerra.
Le barbare colline delle Langhe sono lo
sfondo comune di episodi che hanno tempi diversi: i racconti partigiani hanno
una collocazione cronologica ben delimitata e spesso scandita dalla conquista e
della perdita di Alba, che diviene centrale all’interno della raccolta; le
vicende langarole tendono, invece, a rifuggire la determinazione temporale, pur
svolgendosi in tempo di pace, e recano le cicatrici della guerra. Inoltre, le tracce
insidiose della morte si mescolano al sapore quasi mitico e ameno di alcune
narrazioni.
Il
profilo delle colline delinea un orizzonte a sé, estraneo al mondo, quasi che tutta la realtà fosse concentrata
nelle Langhe e da esse dipendesse ogni cosa. È un rapporto, quello tra i
protagonisti delle vicende e l’ambiente, ma anche tra l’autore e le colline
langarole, quasi simbiotico. Forse è proprio per questo che nell’asciuttezza della
prosa fenogliana trovano spazio lirismi descrittivi che restituiscono un duplice
sguardo, quello dei personaggi e quello dell’autore, che si potrebbe dire innamorato.
Da quella piazzetta si
domina un po’ di Langa a sinistra e a destra le colline dell’Oltretanaro dopo
le quali c’è la pianura in fondo a cui sta la grande città di Torino. I vapori
del mattino si alzavano adagio e le colline apparivano come se si togliesse
loro un vestito da sotto in su. [L’andata]
Nonostante sia usuale,
analizzando una raccolta, soffermarsi su ciascun racconto o almeno sui principali,
preferisco in questo caso esprimere un’impressione generale, concentrandomi
sugli aspetti stilistici e limitandomi a citare la drammatica bellezza di due
racconti in particolare, Un altro muro e
L’acqua verde.
I protagonisti di
queste due storie, benché appartengono ai diversi momenti narrativi che
dividono l’opera, condividono una caratteristica comune ai personaggi
fenogliani: non sono eroi che possano
essere eletti a esempio; la loro psiche è, probabilmente, troppo complessa, crudele
e persino vigliacca perché si possa essere mossi da ardimento.
Non c’è eco
celebrativa nei Ventitré giorni. I racconti sono, al contrario, crudi e spietati nel rivelare ciò che non
lusingherebbe e l’immaginario comune preferisce trascurare.
I
fascisti non vollero dire che non avevan voglia di riprendersi Alba con la
forza, i partigiani non vollero dire che non si sentivano di difenderla a lungo
e da queste reticenze nacque la battaglia di Alba.
I fatti sono
riportati con precisione cronachistica, attraverso una prosa asciutta e solo
apparentemente asettica. L’ironia, che si inserisce quale contraltare di drammi
e tensioni, e la ricercatezza delle immagini, ancora oggi inusuali, strappano
la narrazione dalla freddezza. Ciononostante, può essere insospettabile la tenerezza che, senza scadere nel patetismo, emerge nell’ammissione
delle debolezze e delle brutture individuali, ma anche nella descrizione di
un trapasso. Ed è forse proprio per questo, e per la mescolanza linguistica,
che lo stile di Fenoglio è capace di creare suggestioni che si fissano nella memoria.
Asciuttezza, linearità
e immediatezza sono caratteri che costarono un lungo e
costante lavoro di riscrittura all’autore e potrebbero dare l’idea di
personaggi privi di pensiero e prospettive, ma Fenoglio dà loro profondità psicologica preferendo i
fatti, le azioni e le reazioni alle parole. Persino, quando la paura paralizza Raoul,
spingendolo a cercare rifugio in una fossa quasi fosse un grembo materno, l’angoscia
e il logorio mentale vengono resi attraverso ricordi che sono immagini e gesti.
Non successe niente,
come niente successe negli otto giorni e nelle otto notti che seguirono.
Accadde solo che i borghesi ebbero campo d’accorgersi che i partigiani erano
per lo più bravi ragazzi e che come tali avevano dei brutti difetti […]
Può
sembrare insulsa retorica l’invito a riscoprire l’opera fenogliana e carpirne
la pratica, ma sono sinceramente convinta che questa raccolta non sia solo da
leggere e meriti di essere riletta, anche lontano dai banchi di scuola.
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